C’era una volta un uomo a cui piacevano gli orologi. Ne aveva di tutti i tipi sia da polso che da parete, non mancava di avere anche le “cipolle”, da appendere al panciotto che immancabilmente portava. Era un tipo molto preciso, tanto che tutte le sere lucidava e caricava i suoi orologi, operazione che durava due ore o più.

Era talmente contento della sua passione che non si occupava d’altro, tutto indaffarato a girare per le bancarelle degli antiquari per cercare nuovi (o meglio vecchi) articoli per la sua collezione. A lui piaceva soprattutto recuperare orologi rotti, ed aggiustarli, tanto che tutto il paese, andava da lui per le riparazioni, ed era tutto gratis.

Il 12 ottobre, giorno del suo compleanno, che festeggiava alle 19,15 precise, i suoi compaesani gli facevano dono di cento orologi, raccolti durante l’anno, gran parte guasti. Lui ringraziava e prometteva riparazioni gratuite a tutti.

Il suo “patrimonio” cresceva a dismisura giorno dopo giorno.

Giovanni Orolo, per gli amici Giò (Orolo Giò), da più orologi rotti ne costruiva altri funzionanti, oppure ricostruiva a mano i pezzi mancanti, era un vero e proprio artista. Si comprava micro macchinari con cui ricostruiva i micro ingranaggi dei suoi “pazienti”.

Il suo castello di 30 stanze era talmente pieno che abitava in una casetta di legno nel giardino del maniero.

Pian piano i soldi che aveva ereditato dal nonno, suo omonimo, però finirono per colpa del suo spendere. Era un ricco-povero, non volendo e non potendo separarsi dalla sua “ricchezza”.

Una notte sua mamma Dolà Pen (cinese di origine) gli apparse in sogno dicendogli: “Apri il castello ai visitatori, vedrai che tutti saranno contenti di pagare per vedere il tesoro che hai accumulato!”.

Giò, svegliandosi dal suo sonno molto agitato e preoccupato, si mise a pensare al sogno, e si disse che era un’idea bellissima. Così la mattina dopo preparò dei manifesti in cui annunciava l’apertura della mostra di orologi.

A tutti i visitatori veniva dato un foglietto con le scuse per il costo del biglietto, che poi era veramente simbolico, e tutti nel leggerlo ridevano, non capivano perché Giò si scusasse, visto che erano contenti di visitare il castello, così ricco di tesori.

Non sapevano come era buono e generoso, e come gli dispiacesse farsi pagare.

Entravano rispettosamente in silenzio, ma uscivano commentando quello che avevano visto.

A mezzogiorno poi c’era lo spettacolo: 1000 pendoli con i loro rintocchi in sintonia, davano vita a una vera e propria sinfonia, che faceva rimanere i visitatori a bocca aperta.

La voce si sparse per tutto il mondo e i visitatori facevano un vero pellegrinaggio verso il castello di Giò, e Giò era su tutti i giornali che ne parlavano come un eroe.

La coda davanti ai cancelli in alcuni giorni raggiungeva il paese, distante alcuni chilometri, ma chiunque la rispettava, nessuno si lamentava.

Alcuni portavano orologi da riparare, altri ne facevano dono al vecchio Giò.

La mostra, dedicata alla mamma Dolà e al padre Giorgio, aveva un successo crescente, piaceva a tutti ma un giorno Giò morì. La notizia sconvolse tutti, ai funerali si formò un corteo che attraversava tutta la regione. 

C’erano anche le figlie Sei e Mezza che erano emigrate in America, e che non sapevano della fama del loro padre.

Il marito di Sei, Pietro Punto e di Mezza, Paolo Ora decisero di continuare in memoria di Giò, e sulla torre più alta del castello fissarono un orologio che batteva ogni giorno le 1915 (ora in cui nacque Giovanni).

E ancora oggi nel paese di Minuto, esiste un castello pieno di orologi che i nipoti Tic e Tac, che hanno la stessa passione del bis-bis-bis nonno, custodiscono.

Hanno anche costruito una fabbrica di orologi con la marca Giò Watch con sede a Ginevra.

Il mistero è che gli orologi nel castello continuano a funzionare senza che nessuno li carichi, e qualcuno giura di avere visto un ombra girare per tutto il castello di notte, ma nessuno si allarma sapendo che trattandosi del fantasma di Giò, non può che essere buono come era l’orologiaio di Minuto.

(7 Ottobre 1994)

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